Le storie che se contava davanti al camin, Ariva Barba Zucòn, “fichete soto !!! “

filc3b2Nelle lunghe sere invernali, quando gli unici luoghi davvero caldi erano le stalle, le famiglie contadine si riunivano tra paglia e animali per scaldarsi. Durante questi incontri, chiamati filò (dal verbo filare, attività che occupava le donne in queste occasioni) si raccontavano storie e filastrocche: gli adulti narravano e i bambini ascoltavano. Tradizione tipica del trevigiano, il filò ha lasciato in eredità moltissimi racconti e altrettante rime specchio del passato e fondamenta del futuro. Una delle tante storie raccontate ai bambini è quella del Barba Zucòn, un uomo burbero, simile ad un orco, che si narra mangiasse i bambini.30_vitaContadina

Una mamma e la sua bambina abitavano da sole in una piccola casetta, durante il Carnevale la madre decise di cucinare le frittelle, ma aveva bisogno di una padella e lei non l’aveva. L’unico a possederla era il Barba Zucòn, un omone burbero e barbuto che viveva nel bosco vicino, così la mamma decise di mandare la bambina a chiedere in prestito la padella, ma la piccola, spaventata dalle voci su quell’omone non voleva andare. «Non ti preoccupare, figlia mia, promettigli che gli riporteremo la padella e un cesto di frittelle per ringraziarlo, vedrai che non ti farà nulla», disse la mamma per tranquillizzare la piccola, così lei accettò.images

Attraversato il bosco, la bambina arrivò alla catapecchia del Barba Zucòn e bussò alla porta. L’uomo aprì la porta, era proprio spaventoso come dicevano e la piccola dovette farsi coraggio per chiedere in prestito la padella, lui accettò, ma aggiunse «se non mi porterai le frittelle, verrò a casa tua e ti mangerò in un sol boccone!».

Tornata a casa, madre e figlia iniziarono a fare le frittelle, dopo averle impastate, fritte e zuccherate, ne prepararono un cesto per il Barba Zucòn e la piccola s’incamminò di nuovo verso la casa dell’uomo. Cammina, cammina, le venne fame e decise di mangiare una frittella, pensando che tanto l’orco non se ne sarebbe accorto. Le frittelle erano così buone, che la bambina decise di mangiarne un’altra, e un’altra ancora e senza accorgersene finì il cesto. Spaventata e con le lacrime agli occhi cercò una soluzione e notò che lì vicino un asino aveva appena fatto i suoi bisogni e siccome erano della forma delle frittelle, decise di riempire il cesto con quelli.barba-zucon

Dopo aver bussato alla porta del Barba Zucòn, la bimba gli diede in fretta la padella e il cesto e scappò veloce verso casa. L’uomo, impaziente di assaggiare le frittelle, ne mangiò una senza nemmeno guardarla, ma una volta messa in bocca si rese conto di quello che stava mangiando e sputò tutto subito. «Questi non sono scherzi da fare! Stanotte verrò a casa tua e ti mangerò in un sol boccone!», urlò al vento il Barba Zucòn.

La bambina intanto, una volta arrivata a casa, raccontò tutto alla mamma che pensò subito a come risolvere questo enorme problema, così decise di realizzare una bambola di pezza delle dimensioni della figlia e la riempì di chiodi, vetri e cocci. La notte la mise sotto le coperte al posto della bambina, mentre la piccola si nascondeva sotto il letto. A mezzanotte udirono un tuono e la porta si aprì cigolando.contadini-veneti «Varsache so al primo scalin!», urlò il Barba Zucòn dal piano di sotto, e la mamma disse alla bambina «Ficate soto! Ficate soto!». «Varda che so al secondo scalin!», gridò l’orco, e la mamma «Ficate soto ! Ficate soto!!», e così via finché l’uomo non entrò in camera. «Varda che so vissin al leto e te magno co un sol bocòn!», ma invece della bambina, l’uomo si mangiò la bambola e non appena arrivò nello stomaco il Barba Zucòn cominciò ad urlare per il dolore e, invece di uscire dalla porta, si buttò dalla finestra.

http://martinaway.com/il-filo-e-la-storia-del-barba-zucon/

 

L’IMPRONTA DEI VENETI… ANCHE NELLA FONDAZIONE DI ROMA – PARE CHE ABBIAMO PRESO PARTE AL CRIMINE. :D

Tempo fa accennai all’apporto venetico o veneto antico (come ben scrive la Decapuis, è giusto chiamare Veneti anche i nostri antenati) alla fondazione di Roma. Suscitai ironie e dissensi da parte di un esule istriano chepreferisce, ancor oggi, considerarsi discendente di antichi coloni “latini” civilizzatori dell’Istria e della Dalmazia, e non vantare una propria storia antica autonoma. Sui gusti non si discute, però ritengo utile produrre oggi la fonte illustre della mia nota di allora: è Giacomo Devoto, grande storico della lingua italiana (e latina). Del resto è noto che nella Sabinia antica vi era una tribù di Venetulani e che i nostri antenati con ogni probabilità ( ne parla sempre il Devoto nel paragrafo precedente, arrivarono sino a Milazzo (località Venetico) per insediare una base commerciale, alla pari come egli scrive “di vichinghi ante litteram, sulle loro navi”.

basi delle antiche capanne delal Roma primordiale. Tra i latini vi era gente con cultura simile alla nostra di origine venetica.

basi delle antiche capanne delal Roma primordiale. Tra i latini vi era gente con cultura simile alla nostra di origine venetica.

ORIGINI TRIPARTITE DI ROMA.
Paragrafo 38 cap. X
Storia della lingua italiana di Giacomo Devoto.

Nella metà dell’VIII sec. A.C. l’Etruria non rappresenta ancora la forza irradiante, e Roma è ben lontana dall’essere una metropoli: è solo un “Ponte”, un ponte che è condizione all’Etruria e al suo inserimento nei commerci anche per via di terra. Se allora non siamo obbligati a tener conto dell’Etruria come elemento e forza costitutiva della Roma delle origini, ecco che il problema si apre ed insieme si semplifica, tenendo conto della “tripartizione” (Livio, IV, 7) che dà un’impronta alle origini di Roma così dal punto di vista storiografico come da quello archeologico e linguistico.

tomba Benvenuti. tombe villanoviane sono state rinvenute nella zona del foro italico.

tomba Benvenuti. tombe villanoviane sono state rinvenute nella zona del foro italico.

Sul piano storiografico, le tre tribù primitive ricordate da Varrone L.L. V 55, L.L. V 89 dei “Tities, Ramnes, Luceres”, anche se da lui sentite come nome etrusco, possono essere ricondotte sul piano etnico storico con i valori rispettivi dei Protosabini (diversi dai Sabini del V sec. A.C.), dei Protolatini, connessi agli insediamenti dei Colli albani, e dei Nord italici, filtrati attraverso la diffusione terrestre degli antichi protovillanoviani. Accanto a questa tripartizione giuridica ed etnica si manifesta la tripartizione archeologica, attraverso el necropoli dell’Esquilino, collegata, secondo dià il Duhn (Corpus glossorum latinorum) ed il Mac Iver, con la civiltà del ferro adriatica, che risponderebbe ai Tities protosabini; le capanne del Palatino, collegate con le tombe a fossa dei dei colli Albani, e perciò sul piano dei Ramni, e dei Protolatini in senso stretto, infine gli incineritori del foro romano che consentono solo connessioni settentrionali, e quindi vanno collegati con la nozione giuridica dei Luceres e quella etnico storica dei Nord-italici.
Un piacevole parallelo di tripartizione linguistica è dato dalle sopravvivenze della radice REUDH “Rosso”. Il tipo RUTILUS con il trattamento T da DH è protolatino e documentato sino in Sicilia;
il tipo RUBRO con la consonante sonora al posto della sonora aspirata, all’interno della parola, è di tipo venetico cioè nord italico; il tipo RUFUS …è di tipo osco-umbro e cioè (proto)sabino.

FATOSTA’ CHE E’ RIMASTA INSINTA L’ALTRA SORELA… LA GRASSIA SBALIA’

LE ME FONTI DIZE CHE LA ZE VERA.  😀 172141_1641485709502_212797_o

Il documento qui riportato è la copia di un tema scritto da un alunno di 3° elementare delle scuole “G. Pascoli” di Ca’ Tron di Roncade (TV), il 6 marzo 1954 e costituisce la prova di un miracolo andato fuori bersaglio. Una “grazia”, cioè, che sarebbe stata concessa dalla Madonna di Monte Berico ad una persona che non l’aveva richiesta.

http://www.roncade.it/eventi2001/madonna.htm  ringrazio la seconda cuzina Maila Bertoli 🙂

LA SAGEZZA DEI NOSTRI NONI, IN POCHE RIGHE IN LENGUA NOSTRANA (SIGNOR Fé CHE NO SIA BECO… ) :D

getmediai siori more da la fame
se i poareti no sua.
it.
i signori muoiono di fame
se i poveretti non sudano.

I omeni ga i ani che i se sente,
le done quei che le mostra.
it.
gli uomini hanno gli anni che si sentono,
le donne quelli che mostrano.

chi massa se tira indrio, finisse col culo in rio.
it. chi troppo si tira indietro, finisce col culo nel canale.

a pagar, fate pregar
por nasser l’acidente
che te paghi co un gnente.

Signore, fé che no sia beco,
se lo son, che no lo sapia…
se ‘l so, fé che no ghe bada…
it.
Signora fate che non sia cornuto, se lo sono fate che non lo sappia, se lo so, fate che non ci badi…

Caval, putana e persegar, trent’ani no i pol durar.
it. cavallo, puttana pesco trent’anni non possono durare.

Meditè, zente.. meditè  se un de questi ze par vu.  😀

PARLAR VENETO. I parla tuti in cicara, adesso ‘sti putei….

hqdefault (1)Da noi, negli anni 60, sotto lo stimolo dei nuovi modelli di vita, della tv, e nel tentativo di emulare le nuove classi alte (ben diverse da quelle di poco tempo prima che usavano benissimo il veneto anche in pubblico oltre che in famiglia) potevano accadere siparietti come questi in una casa qualunque di un popolano qualunque. E noi che dal popolo veniamo, possiamo testimoniare l’uso di un italiano maccheronico da parte dei papà e delle mamme di allora, che diventava a sua volta strumento ghettizzante, anziché divenire strumento di riscatto.  Spero che il nuovo orgoglio del “Parlar veneto” (come titola l’opera di Gianna Marcato da cui ho tratto la poesia) eviti a molta gente che ancora si esprime quasi esclusivamente nella nostra lingua, situazioni come questa.hqdefault (2)

I parla tuti in cicara, adesso ‘sti putei

Ma, spesso, co le mame…i casca nei piatei…

Quando da scola, torna el fioleto beato

La mama là lo apostrofa: – dimmi, cos’hai ciapato? –

–         mama lo sai…dificile…è stato quel problema!…

ho preso pure quatro sul detato e sul tema!…

–         Aseno, cossa serve parlarti l’italiano?

Ti s-gnacco in collejo se non mi passi l’ano!…-

Intanto torna a casa il pare, manovale…

Za da un pesso avventissio ne l’azienda stradale.

In fameja el fa sfojo de tuto el so saere,

perché, là sul laoro, el conosse l’ingegnere.

Sentindo ste notissie el lassa là la çena.

El volea de so fiolo, far un omo de pena…

El pensa “sforsi inutili”. Ghe fa spissa la man…

El sventola sul toso…sberloti in padovan…hqdefault

 

Di L. Oliosi in “la Congrega” dei poeti dialettali padovani.

Le frasi storiche de na mare e pare veneti

13412864_10209076681095581_3906171992686892504_nPaolo Fantinel ga messo su sta bea racolta 😀 :

Le frasi de na mare e un pare veneti:
Le Frasi di una mamma e papà veneti
1. fa l’ometto
2. ara che te taio i viveri
3. desso ciamo to pare
4. va pian e fa presto
5. co tuti i schei che ghemo speso pa farte studiare
6. ti te si nato so a bombasa
7. E par fin pecà voerve ben.
8. prega el to dio che no te ciapa
9. desso tiro fora a savata
10. vestio cusí te me pari proprio un singano
11. te si diventà un bueo magna manco
12. ze meio che te scampi co tute e gambe che te ghe
13. te poi pianzere anca in greco tanto no teo compro
14. no stà strasinare i pie
15. no stà savatare
16. vara che te riva na man roversa
17. varda che te meto in coejo
18. questa ze a casa dea lasagna chi no lavora no magna
19. gheto proprio da ciapare esempio da i pi stupidi?
20. te si inutie come el paltan
21. vara el trio paloma 2 inseminii e uno in coma
22. dei… disi qualcosa
23. proa parlare se te ghe corajo
24. vardame co te parlo
25. va via prima che te copa
26 sito inseminio?
27. stame distante
28. gheto capio queo che te go dito?
29. ze soeo i criminai che sta in volta de note
30. ma i to amici no ga mia na fameia?
31. credito che mi fabriche schei de note?
32. zerea aranciata quea che te ghe vomità?

Le belle veneziane… son vostro pregion, pregion de queste mameline dolci.

227388_1992364019430_270000_nNe abbiamo un esempio con questo ritratto di Paolo Veronese, intitolato “la bella Nani” del 1560, oggi al Louvre.
a proposito di belle dame veneziane ammirate questa, assolutamente incantevole, in un abito di una eleganza tale da farla somigliare a una regina. Ma era uno stile comune alle signore venete del tempo.

227794_1990784379940_4169050_nVenezia, oltre che per il buon governo, era famosa per la bellezza delle sue donne, fossero esse dame “honorate” o famose cortigiane come Veronica Franco. Le une e le altre, sontuosamente vestite, coperte di “zogie” di ogni genere ispiravano versi come questi:
le done, può, zè bele come el sol
Che el par dee, fate in Paradiso,
e veste megio che un inperador”. (Calmo)

la bionda era molto apprezzata:
“con le toe trezze bionde sparpagnae,
in tel cor ti me dà tante stocae..” (Caravia)

ma non ci si limitava, nelle poesie e testi vari, a decantare la bellezza, si scendeva nei particolari più concreti del corteggiamento. Ecco un dialogo piuttosto “hard” preso dalla “Venexiana”:

“Giulio – son vostro pregion, pregion de queste mameline dolci.
Angela – ha, giotoncello, ti le base, si? Guarda no le strucar, che le çigarà.
Giukio – questa pomellina voglio per me, l’altra sii vostra.
Angela – Sì, ma dame la lenguina.
Giulio – voglio la tetina che mi avete donato.
Angela – no vojo, se no ti me dà la lenguina, te strucarò co’ i dente, sì, a la fé.
Giulio – Volete cussì?
Angela – Tuta, tuta, sì…”

IL PRIMO STATO CON UN ARCHIVIO

archiviove4La Serenissima fu il primo Stato che creò un Archivio dove conservare tutti gli Atti deliberati dal Maggior Consiglio….. Continua a leggere

Pavano, ossia il dialetto del caos. Tra ’400 e ’600 una galassia culturale unica nel suo genere

Doppi sensi, ambientazioni contadine, immagini surreali: Paccagnella pubblica il vocabolario della lingua di Ruzante.

Cesare vecellio_contadina venetaPare impossibile che generazioni di studiosi continuino a occuparsi assiduamente di autori della nostra letteratura che non pongono alcuna particolare difficoltà di comprensione della lettera del testo (la prima e indispensabile chiave d’accesso a qualsiasi opera letteraria) né alcun particolare sforzo di ricostruzione storica, riducendosi a semplici palestre di elucubrazione per disimpegnati stilisti. Pare impossibile soprattutto pensando che nel bel mezzo della nostra storia culturale vi è almeno un poderoso filone letterario che al vario pregio artistico dei suoi prodotti accompagna una straordinaria sfida linguistica. Parliamo della letteratura pavana: un capitolo a lungo pigramente relegato ai margini, che ha prodotto con Ruzante almeno un colosso della letteratura europea, e con la miriade dei suoi anticipatori e seguaci, tra Quattro e Seicento, una galassia culturale unica nel suo genere.images (1)

La letteratura pavana è tutta imperniata sull’impiego di una varietà linguistica che arieggia il padovano rustico, ma si discosta dalla sua realtà storica per sovraccaricarlo espressivamente: un faelare di villani e di contadine, prodotto però da autori tutt’altro che demotici, che giocano con la lingua come i grandi pittori del Rinascimento veneto giocavano col colore. main600x0_p1835lev9r1r4278rmos1n1jabgcProducendo capolavori: come i teleri delle commedie, dei dialoghi e dei monologhi ruzantiani; come i quadri venezian-padovani di un Andrea Calmo, o la vertiginosa serie dei bozzetti poetici allineati dalla triade Magagnò, Menon e Begotto nelle loro raccolte di rime. Una lingua caotica, che mette a dura prova anche i lettori più esperti (tanto che di solito le edizioni di questi testi rivolte al pubblico si presentano con traduzione a fronte o a margine); ma anche, finalmente, una lingua disvelata fin nelle sue pieghe, grazie al Vocabolario del Pavano che Ivano Paccagnella ha appena pubblicato, per i tipi (padovani, ovviamente) di Esedra.cibo11

Mille pagine per esplorare, parola per parola, tutto l’immenso tesoro della lingua di Ruzante, dei pre-ruzantiani (soprattutto quattrocenteschi) e dei post-ruzantiani, fino al misterioso autore di un Dialogo che in passato fu attribuito nientemeno che a Galileo Galilei, professore allo Studio di Padova. Mille pagine, migliaia di termini su ciascuno dei quali Paccagnella – professore allo stesso ateneo patavino, e allievo di Gianfranco Folena, che un’impresa simile compì sul veneziano di Carlo Goldoni – ha sudato per vent’anni. Tanto ci è voluto per riuscire ad avere edizioni attendibili (sia pur di servizio) del corpus dei testi pavani, ma soprattutto per cercar di spiegarne chiaramente ogni singolo termine ed espressione. Ogni proverbio, ogni irriverente allusione, ogni turpe doppio senso. Di lasciarli nel vago è capace qualsiasi saltimbanco: ma il difficile è inchiodarli, su una pagina di dizionario, a un preciso significato. O almeno formulare un’ipotesi plausibile sul loro significato e sul motivo per cui sono stati impiegati. Giacché, per citare ancora Galileo, «parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi».snyders_frans_503_the_fruit_basket

E l’intenzione di Ruzante non era certo quella di non farsi capire: solo che il suo pubblico viveva in un ambiente culturale naturale e insomma in un tempo ormai irrimediabilmente separato dal nostro, del quale si può però tentare di ricostruire luoghi, suoni, piante, animali, abiti, concetti che non fanno più parte delle nostre abitudini. Proprio come nel Vocabolario del veneziano di Carlo Goldoni, con cui Folena vent’anni fa aveva dischiuso il mondo del commediografo veneziano, basta atterrare su un verbo qualsiasi, anche il più familiare – che so, andare – per scoprire modi di dire, e con essi, nozioni antiche, che credevamo di aver dimenticato: andare a mario (a marito), ma prima (sperabilmente solo prima) andare a morose, andar drio (nel senso di «continuare»), andar in bando (per «esser banditi»), andar al bordello o ai bordiegi (nel senso di «in malora»), ma anche andare a ponaro (letteralmente «al pollaio»: significa «a dormire») o andar a versoro (andar nei campi spingendo l’aratro), andar int’un acqua («sciogliersi») o andar in broetto («sdilinquirsi», andare in brodo), fino ad un andare in gluoria che per i villani ha il significato terra- terra di «godere»: «co’ butto gi uocchi in te ’l to sen / a’ vago in gluoria secoloro, amen».

Lorenzo Tomassin