LA GRANDE STAGIONE DELL’ARCHITETTURA E’ IL DONO DELLA TERRAFERMA A VENEZIA

Dedicato ai pochi veneziani che pensano a Venezia come cosa “altra” che nulla ha a che spartire con i “campagnoli” di Terraferma.  🙂

download (1)La grande stagione dell’architettura è il dono che le terre di San Marco fanno a Venezia. Sanmichieli, Palladio, e tanti tanti altri.  Il Palladio, nato Andrea di Pietro della Gondola, era padovano di nascita, ma a dargli il suo bel nome classico era stato un gran signore vicentino di molte lettere, e di molte ambizioni poetiche e drammaturgico, Giangiorgio Trissino, e a Vicenza Palladio aveva trovato nella nobiltà locale, ricchissima e numerosissima (non sono tanti ne gli horti pomi e peri, / come a Vicenza conti e cavalieri ) , una committenza addirittura torrenziale che gli fa trasformare nel proprio segno la città.

porta Nova a Verona, del Sanmichieli

porta Nova a Verona, del Sanmichieli

A Verona Sanmichieli è chiamato a costruire palazzi e chiese e, a Venezia, sul Canal Grande, il palazzone del Doge Marino Grimani.  A Vicenza, non bastassero la basilica, la Loggia Bernarda e il teatro Olimpico, i palazzi del Palladio sono almeno undici.

Nessuno a Venezia, ma la facciata di San Giorgio Maggiore celebra le nozze tra il suo genio e la Dominante nel luogo più caratterizzante del paesaggio veneziano, proprio dirimpetto alla Piazzetta, e al palazzo del Doge che, dopo un catastrofico incendio, qualcuno aveva pensato di far ricostruire proprio da lui.download

Nelle città grandi e piccole fioriscono commerci ed attività economiche di ogni genere; non è soltanto Venezia a fabbricare e ad esportare, la Repubblica tutta è una grossa entità manifatturiera.

piazza Maggiore di Feltre, piazza veneziana

piazza Maggiore di Feltre, piazza veneziana

E’ l’era di una nuova ondata di restauri ed abbellimenti, quando non si ricostruisce di sana pianta. Come  a Feltre distrutta due volte dalle soldatesche di Massimiliano; viene ricostruita armoniosa ed omogenea nell’eleganza cinquecentesca dei suoi edifici.

E’ il tempo in cui il Friuli la Lombardia e il Veneto prendono l’aspetto accattivante che ha suscitato l’ammirazione di tanti viaggiatori d’ogni tempo.

Alvise Zorzi, San Marco per sempre 

700 anni di una gloriosa istituzione veneziana.

smarcog_8687_-_copie_2Prendo lo spunto da un ottimo articolo di Antonio Socci, pubblicato su un quotidiano nazionale nei giorni scorsi. Il giornalista si è trovato ad assistere alla celebrazione della Messa in una domenica mattina nella Basilica di San Marco.

”Di per sé Venezia è una struggente passerella verso l’eterno. E lo si capisce la domenica mattina andando nel cuore vivo, vero e pulsante di Venezia, quella Basilica di San Marco che alle 10.30 torna a far rivivere la gloria cristiana di Bisanzio, con una liturgia – fra gli ori dei mosaici e l’incenso dell’adorazione – esaltata dalla potente polifonia di Claudio Monteverdi cantata dalla Cappella Marciana. Li tocchi una scintilla del Paradiso.”0307201613451
Le cerimonie odierne, accompagnate da tamburelli e chitarre scordate, a tutto fanno pensare tranne che al Sacro, hanno fatto dimenticare il raccoglimento e la devozione.
Ancora per questo mese di luglio si stanno ricordano i 700 anni della fondazione della Cappella Marciana, con vari momenti in cui il pubblico ha potuto godere della meraviglia di una delle più belle istituzioni della città.
Con ogni probabilità la nascita della istituzione musicale risale a tempi ancora precedenti, ma il giugno 1316 è una data ufficiale, testimoniata dal contratto per la riparazione di un organo. Nel 1413 il coro della cappella ducale per volere del Senato veneziano divenne scuola musicale col nome di Serenissima Cappella Ducale di San Marco.
Tra i direttori si susseguirono nella direzione  migliori compositori, da Willaert,che fu il primo a sfruttare le caratteristiche della Basilica per ottenere l’effetto della stereofonia, a De Rore e a Merulo. Nel XVI secolo, con Andrea Gabrieli iniziò un grande rinnovamento, nacque la ”Scuola Veneziana”, il cui stile venne apprezzato e imitato in tutta Europa. Il video è esplicativo, nonostante la descrizione in lingua spagnola.  https://youtu.be/JiyjQzPsy3I
Nel secolo successivo  arrivò a Venezia da Mantova Claudio Monteverdi, che portò la Cappella livelli qualitativi eccezionali, accompagnando alle voci oltre all’organo diversi altri strumenti.
Claudio_Monteverdi
Nel 1696 con la Cappella fece la sua prima esibizione pubblica Antonio Vivaldi, come violinista.
Con la caduta della Repubblica e lo spostamento della sede patriarcale a San Pietro in Castello, per la Cappella iniziò un periodo di decadenza, con l’eliminazione dell’orchestra e alterne vicende per il coro, che subì vari ridimensionamenti e modifiche. La Cappella Marciana rimane tuttavia un coro prestigioso, uno dei due maggiori cori liturgici, assieme a quello della Cappella Sistina.
Attualmente la Cappella Marciana presta il suo servizio accompagnando la Messa domenicale delle 10,30 nella Basilica di San Marco, oltre alle feste principali e alla festa di San Marco il 25 aprile.

Le storie che se contava davanti al camin, Ariva Barba Zucòn, “fichete soto !!! “

filc3b2Nelle lunghe sere invernali, quando gli unici luoghi davvero caldi erano le stalle, le famiglie contadine si riunivano tra paglia e animali per scaldarsi. Durante questi incontri, chiamati filò (dal verbo filare, attività che occupava le donne in queste occasioni) si raccontavano storie e filastrocche: gli adulti narravano e i bambini ascoltavano. Tradizione tipica del trevigiano, il filò ha lasciato in eredità moltissimi racconti e altrettante rime specchio del passato e fondamenta del futuro. Una delle tante storie raccontate ai bambini è quella del Barba Zucòn, un uomo burbero, simile ad un orco, che si narra mangiasse i bambini.30_vitaContadina

Una mamma e la sua bambina abitavano da sole in una piccola casetta, durante il Carnevale la madre decise di cucinare le frittelle, ma aveva bisogno di una padella e lei non l’aveva. L’unico a possederla era il Barba Zucòn, un omone burbero e barbuto che viveva nel bosco vicino, così la mamma decise di mandare la bambina a chiedere in prestito la padella, ma la piccola, spaventata dalle voci su quell’omone non voleva andare. «Non ti preoccupare, figlia mia, promettigli che gli riporteremo la padella e un cesto di frittelle per ringraziarlo, vedrai che non ti farà nulla», disse la mamma per tranquillizzare la piccola, così lei accettò.images

Attraversato il bosco, la bambina arrivò alla catapecchia del Barba Zucòn e bussò alla porta. L’uomo aprì la porta, era proprio spaventoso come dicevano e la piccola dovette farsi coraggio per chiedere in prestito la padella, lui accettò, ma aggiunse «se non mi porterai le frittelle, verrò a casa tua e ti mangerò in un sol boccone!».

Tornata a casa, madre e figlia iniziarono a fare le frittelle, dopo averle impastate, fritte e zuccherate, ne prepararono un cesto per il Barba Zucòn e la piccola s’incamminò di nuovo verso la casa dell’uomo. Cammina, cammina, le venne fame e decise di mangiare una frittella, pensando che tanto l’orco non se ne sarebbe accorto. Le frittelle erano così buone, che la bambina decise di mangiarne un’altra, e un’altra ancora e senza accorgersene finì il cesto. Spaventata e con le lacrime agli occhi cercò una soluzione e notò che lì vicino un asino aveva appena fatto i suoi bisogni e siccome erano della forma delle frittelle, decise di riempire il cesto con quelli.barba-zucon

Dopo aver bussato alla porta del Barba Zucòn, la bimba gli diede in fretta la padella e il cesto e scappò veloce verso casa. L’uomo, impaziente di assaggiare le frittelle, ne mangiò una senza nemmeno guardarla, ma una volta messa in bocca si rese conto di quello che stava mangiando e sputò tutto subito. «Questi non sono scherzi da fare! Stanotte verrò a casa tua e ti mangerò in un sol boccone!», urlò al vento il Barba Zucòn.

La bambina intanto, una volta arrivata a casa, raccontò tutto alla mamma che pensò subito a come risolvere questo enorme problema, così decise di realizzare una bambola di pezza delle dimensioni della figlia e la riempì di chiodi, vetri e cocci. La notte la mise sotto le coperte al posto della bambina, mentre la piccola si nascondeva sotto il letto. A mezzanotte udirono un tuono e la porta si aprì cigolando.contadini-veneti «Varsache so al primo scalin!», urlò il Barba Zucòn dal piano di sotto, e la mamma disse alla bambina «Ficate soto! Ficate soto!». «Varda che so al secondo scalin!», gridò l’orco, e la mamma «Ficate soto ! Ficate soto!!», e così via finché l’uomo non entrò in camera. «Varda che so vissin al leto e te magno co un sol bocòn!», ma invece della bambina, l’uomo si mangiò la bambola e non appena arrivò nello stomaco il Barba Zucòn cominciò ad urlare per il dolore e, invece di uscire dalla porta, si buttò dalla finestra.

http://martinaway.com/il-filo-e-la-storia-del-barba-zucon/

 

L’IMPRONTA DEI VENETI… ANCHE NELLA FONDAZIONE DI ROMA – PARE CHE ABBIAMO PRESO PARTE AL CRIMINE. :D

Tempo fa accennai all’apporto venetico o veneto antico (come ben scrive la Decapuis, è giusto chiamare Veneti anche i nostri antenati) alla fondazione di Roma. Suscitai ironie e dissensi da parte di un esule istriano chepreferisce, ancor oggi, considerarsi discendente di antichi coloni “latini” civilizzatori dell’Istria e della Dalmazia, e non vantare una propria storia antica autonoma. Sui gusti non si discute, però ritengo utile produrre oggi la fonte illustre della mia nota di allora: è Giacomo Devoto, grande storico della lingua italiana (e latina). Del resto è noto che nella Sabinia antica vi era una tribù di Venetulani e che i nostri antenati con ogni probabilità ( ne parla sempre il Devoto nel paragrafo precedente, arrivarono sino a Milazzo (località Venetico) per insediare una base commerciale, alla pari come egli scrive “di vichinghi ante litteram, sulle loro navi”.

basi delle antiche capanne delal Roma primordiale. Tra i latini vi era gente con cultura simile alla nostra di origine venetica.

basi delle antiche capanne delal Roma primordiale. Tra i latini vi era gente con cultura simile alla nostra di origine venetica.

ORIGINI TRIPARTITE DI ROMA.
Paragrafo 38 cap. X
Storia della lingua italiana di Giacomo Devoto.

Nella metà dell’VIII sec. A.C. l’Etruria non rappresenta ancora la forza irradiante, e Roma è ben lontana dall’essere una metropoli: è solo un “Ponte”, un ponte che è condizione all’Etruria e al suo inserimento nei commerci anche per via di terra. Se allora non siamo obbligati a tener conto dell’Etruria come elemento e forza costitutiva della Roma delle origini, ecco che il problema si apre ed insieme si semplifica, tenendo conto della “tripartizione” (Livio, IV, 7) che dà un’impronta alle origini di Roma così dal punto di vista storiografico come da quello archeologico e linguistico.

tomba Benvenuti. tombe villanoviane sono state rinvenute nella zona del foro italico.

tomba Benvenuti. tombe villanoviane sono state rinvenute nella zona del foro italico.

Sul piano storiografico, le tre tribù primitive ricordate da Varrone L.L. V 55, L.L. V 89 dei “Tities, Ramnes, Luceres”, anche se da lui sentite come nome etrusco, possono essere ricondotte sul piano etnico storico con i valori rispettivi dei Protosabini (diversi dai Sabini del V sec. A.C.), dei Protolatini, connessi agli insediamenti dei Colli albani, e dei Nord italici, filtrati attraverso la diffusione terrestre degli antichi protovillanoviani. Accanto a questa tripartizione giuridica ed etnica si manifesta la tripartizione archeologica, attraverso el necropoli dell’Esquilino, collegata, secondo dià il Duhn (Corpus glossorum latinorum) ed il Mac Iver, con la civiltà del ferro adriatica, che risponderebbe ai Tities protosabini; le capanne del Palatino, collegate con le tombe a fossa dei dei colli Albani, e perciò sul piano dei Ramni, e dei Protolatini in senso stretto, infine gli incineritori del foro romano che consentono solo connessioni settentrionali, e quindi vanno collegati con la nozione giuridica dei Luceres e quella etnico storica dei Nord-italici.
Un piacevole parallelo di tripartizione linguistica è dato dalle sopravvivenze della radice REUDH “Rosso”. Il tipo RUTILUS con il trattamento T da DH è protolatino e documentato sino in Sicilia;
il tipo RUBRO con la consonante sonora al posto della sonora aspirata, all’interno della parola, è di tipo venetico cioè nord italico; il tipo RUFUS …è di tipo osco-umbro e cioè (proto)sabino.

LA BATTAGLIA DI LEPANTO E L’EX VOTO NEL DUOMO DI MONTAGNANA

il dipinto si trova sulla parete sinistra e misura mt. 4 per 4,50

 Chi visita Montagnana, non deve perdersi, specie se vi si reca a ottobre, la visione del grande dipinto conservato nel Duomo, che riproduce in maniera molto fedele lo svolgersi della famosa battaglia.

Il pittore è anonimo, anche se vi sono indizi, o meglio, sospetti, sul nome, ed è comunque certo che fu dipinto poco dopo i fatti da persona che si fece raccontare in dettaglio tutto, anche la particolare forma delle imbarcazioni. riporto quì di seguito al descrizione trovata in internet, ma voglio aggiungere che ci farebbe bene ripercorrere quelle vicende, di tanto in tanto.

Si scopre una coralità  incredibile, attorno alla fede cristiana e attorno allo stato veneto: Montagnana si autotassò e oltre alle vite dei propri figli che si arruolarono volontariamente per la salvezza della cristianità e per quella dello stato veneto, offrì grandissime quantità di lino e canapa, prodotti del luogo, per fabbricare corde e tele.

Vedete, ogni tanto salta fuori qualche “bella anima” di storico tricolorista, il quale non manca di sottolineae l’incosistenza dello stato marchesco, un conglomerato di città riottose, sotto il tallone della “Dominante”. nulla di più falso. Dalla guerra di Cambray, a Lepanto. alle rivolte dei “marcolini” nel 1797, al discorso di Perasto, è tutto un continua affettuosa testimonianza di affetto filiale alla Patria Veneta e al suo Principe, il doge dei veneti da parte della popolazione intera.

ecco quanto scrive  Zereich Princivalle:

“Il quadro che riproduce la Battaglia di Lepanto (m. 4,50 x 4,50), ad olio su tela, appeso alla parete sinistra nella prima campata – già sopra la porta laterale rivolta a mezzogiorno – a prescindere dal suo valore artistico, fu giudicato assai interessante da Guido Antonio Quarti, ben noto scrittore di storia navale, che lo pubblicò per primo, credo, quale opera di ignoto autore in uno dei suoi volumi.

Egli, scrivendo al Giacomelli, rilevava che il pittore doveva avere una notevole conoscenza storica della battaglia, che è riprodotta, come realmente avvenne, con le galee in combattimento a gruppi.

“In primo piano è la flotta di Venezia al comando di Sebastiano Venier; più sopra quella di Spagna sotto Don Giovanni d’Austria. Un gruppo centrale riproduce il ricupero della capitana di Malta. E’ ben distinta a destra la fuga di Portaù pascià (barchetta che si salva attraverso le galee).

Sopra, a sinistra, la squadra di soccorso del march. di Santa Croce. Poi il particolare di Occhialì (Uluzzalì) che fugge dopo essersi affrontato con Giovanni Andrea Doria, riparadosi con poche galee alla Prevesa. In alto, a destra, è Lepanto con i due Castelli alla bocca del golfo; a sinistra, su nuvola, la Madonna del Rosario con Santa Giustina.

Il pittore doveva avere perfetta conoscenza dei fatti, perchè è anche da notare che tutte le galee cristiane hanno le vele ammainate; il mare è abbonacciato in favore delle armi crocesegnate; sono esatte le varie bandiere con i colori di raggruppamento e con gli stemmi particolari. Interessanti per l’archeologia navale sono le strutture delle galee, con la dimostrazione, non chiara altrove, dei banchi da rematori sporgenti dai fianchi delle stesse.

Il nostro quadro sembrerebbe appartenere ad un pittore, formatosi appunto in tale ambiente; e verrebbe da pensare ad Antonio Vassilacchi, detto l’Aliense (1556 – 1629), figlio di un proprietario di navi, oriundo dell’isola di Milo, che fornì di vettovaglie l’armata cristiana nella querra del 1571, il quale dipinse per Montagnana anche un’altra tela “Il Salvatore e i Santi Protettori” ed amò trattare varie composizioni affollate di personaggi e diversi soggetti di battaglie terrestri e navali, compresa pure quella di Lepanto, come ad esempio negli affreschi – attribuitagli dalla Boccassini – della villa Barbarigo di Noventa Vicentina, presso Montagnana”.

di Zereich Princivalle