VENEZIA VISTA DAGLI ALTRI

Quando parliamo della Serenissima, parliamo generalmente di personaggi veneziani però non cerchiamo di vedere come pensavano gli stranieri che sono vissuti a Venezia; attraverso di loro possiamo avere un’idea dell’enorme importanza che ebbe la Repubblica nei secoli.

Ancora una volta ritorniamo al XVI secolo quando l’Imperatore Carlo V nomina a Juan Hurtado de Mendoza ambasciatore della Spagna a Venezia.

Questo personaggio che già l’avevano mandato in varie missioni fuori del suo Paese; quando arriva a Venezia il 25 maggio 1539 incomincia ad essere “famoso”, la sua dimora veneziana non è in una casa, viene sistemato in uno dei palazzi del Canal Grande, la strada più bella e famosa del mondo.

Gli ambasciatori generalmente avevano una corta permanenza, però nel caso del Mendoza rimane 13 anni nella città lagunare.

La sua principale missione era mantenere la Serenissima unita alla Lega Santa (ricordiamo che la Spagna aveva un Impero dove mai tramontava il sole, però era cosciente che senza la partecipazione di Venezia la guerra contro i Turchi non l’avrebbero vinta), il timore degli spagnoli era che Venezia arrivasse ad un accordo di pace con i Turchi.

L’altra importante missione era vigilare le attività degli agenti francesi a Venezia.

La tappa più importante della vita di questo spagnolo si sviluppa proprio quando vive a Venezia dove conosce i migliori artisti, umanisti; quando acquista grandi opere d’arte e costruisce una Biblioteca che sucessivamente diventa famosa in Spagna.

Juan Hurtado de Mendoza si fa così famoso ed importante a Venezia tanto che riceve perfino minacce di morte da parte di varie potenze europee. La sua importanza arriva al punto che simultaneamente era ambasciatore a Roma dove, dopo la morte del papa Paolo III, influisce sul conclave, per ordine imperiale, un candidato favorevole agli interessi di Carlo V; contro dei suoi desideri viene eletto Giulio III.

Tra le importanti missioni aveva anche quella di rappresentare l’Imperatore nel Concilio di Trento.

Questo personaggio spagnolo nelle sue epistole, che tuttora si conservano, parla molto del periodo veneziano e ci ricorda che la nostra Terra fu importantissima e ambizionata in tutti i tempi.

I VENETI POPOLO D’EUROPA secondo il Direttore dell’Accademia delle Scienze polacca.

diffusione della civiltà dei 'campi d'urne'
diffusione della civiltà dei ‘campi d’urne’

Il nome etnico “Veneti” lo si rinviene in forme diverse riferito a popoli storici che abitarono varie parti del continente (6) ed è contenuto in tanti toponimi. La sua diffusione disegna una vasta area continua che s’irradia dall’Europa centrale verso nord, nei Paesi Baltici e la costa polacca, verso Meridione nel comprensorio alpino e nelle valli padana e danubiana, e verso sud-est in Asia Minore. Altre tracce significative contenute nei nomi dei luoghi sono sparse tra Bretagna, Normandia, Galles e Scandinavia. Ricordi di sporadici insediamenti percorrono la penisola italica (come il popolo laziale dei Venetulani, ricordati da Plinio), fino in Sicilia (la messinese Venetico nella zona di Milazzo, prossima a campi di urne).

Dal punto di vista archeologico, somiglianze evidenti legano reperti e testimonianze di aree quali Lettonia, Lituania, Polonia, Cechia, Slovacchia, Ucraina occidentale, Germania Orientale, Austria, Ungheria, Baviera, Württemberg, Slovenia, Istria, le Tre Venezie, la Romagna. «Nel territorio tra il Baltico e l’Adriatico le genti venetiche, nonostante i più tardi insediamenti dei Celti e la sovrapposizione delle parlate germaniche in vaste regioni, hanno conservato l’originaria fisionomia culturale sino ai nostri giorni. È sorprendente in questo contesto il ruolo dell’albero della vita, il tiglio (slov. lipa), che appare nei villaggi di tutta la Germania orientale, centrale e meridionale, come nei vicini paesi slavi. La conservazione del tiglio nei villaggi è il principale elemento che distingue l’antico territorio venetico da quello indoeuropeo, dove invece prevale la quercia»(7).

un casone a Mogliano (Mojan) abitazioni con tetti del tutto simili abitavano i paleo veneti
un casone a Mogliano (Mojan) abitazioni con tetti del tutto simili abitavano i paleo veneti

Su di un’area più ristretta (Veneto, Romagna, Trentino, Tirolo, Carinzia, Stiria, Friuli-Venezia Giulia, Istria, Slovenia) si è prodotta, soprattutto nei secoli VI e V, la cosiddetta Arte delle situle, connotata da una spiccata originalità figurativa e stilistica. In queste terre popoli d’origine venetica (i Veneti euganei, i Vindelici, i Reti, i Carni, i Norici, gli Istri e forse anche i Liburni (8)) parlavano una lingua a noi incomprensibile, usando in gran parte uno stesso sistema di scrittura, attestato in circa 400 iscrizioni: l’alfabeto venetico.

A cavallo tra l’Età del Bronzo e del Ferro, i Veneti furono la più grande e antica nazione europea (a differenza dei Celti, che non costituirono un ceppo etnico omogeneo). La scuola storica polacca, la più prestigiosa in ambito europeo, da decenni fornisce un contributo scientifico d’importanza decisiva. Witold Hensel ne è un autorevole rappresentante: ecco le sue considerazioni.

spada ad antenna, ricostruzione. arma diffusa dalle Venezie all'Europa centro settentrionale nell'epoca del bronzo.
spada ad antenna, ricostruzione. arma diffusa dalle Venezie all’Europa centro settentrionale nell’epoca del bronzo.

«A più riprese, diversi archeologi ipotizzarono l’esistenza di un vero e proprio ‘impero’ venetico, esteso dall’Illiria al Baltico, dal Nord Italia alla Bretagna. Per quanto riguarda la Polonia, l’insediamento venetico occupava una regione centrale delimitata al nord dal Mar Baltico e all’ovest da una parte della Slesia, mentre per i confini dell’est, essendo ancora incerti, si suppone che corressero in prossimità dell’Elba.

(6) In particolare, si ricordano: 1. I Veneti alpino-adriatici, già noti ad Erodoto con il nome Evetoi; 2. gli Evetoi dei Balcani Settentrionali; 3. gli Evetoi dell’Asia Minore (Paflagonia) noti ad Omero; 4. i Veneti noti a Giulio Cesare della Bretagna, il cui nome è sopravissuto nel toponimo della capitale Vannes; 5. i Venetulani del Lazio (etnico connesso al toponimo *Venetulum), menzionati da Plinio. Vedi in Golab, Veneti//Venedi, p. 328.

diffusione di aplogruppi simili nel bagaglio genetico
diffusione di aplogruppi simili nel bagaglio genetico

(7) Šavli, Interpretazione della toponomastica, pp. 272.

(8) STIPCEVIC, Gli Illiri, pp. 36-38, 158. Si parla di talassocrazia liburnica per indicare il dominio dei Liburni sul mare Adriatico, già all’inizio del I millennio a.C. Furono i fondatori di Adria e colonizzarono l’area di Ascoli Piceno. Nel 734 a.C. si ricorda un loro grande scontro navale contro i Greci. Il bacchiade corinzio Chersicrate riuscì a scacciarli da Corcyra. Nel V secolo a.C. cominciò il loro declino. I Liburni avevano una struttura sociale a forte connotazione matriarcale: le donne liburniche potevano amoreggiare con gli uomini di loro gradimento, anche con servi e stranieri. Tutte le loro divinità erano femminili. I monumenti sepolcrali di quell’area vedono prevalere quelli femminili su quelli maschili.

Tra questi Veneti baltici e i nostri Veneti euganei, ossia i Paleoveneti, la scuola polacca vedrebbe inequivocabili i segni di una comune origine; in particolare offrirebbero prove di un certo rilievo in tal senso le testimonianze relative alla spiritualità e al culto rinvenute sia nei territori polacchi che nel Padovano.

Oltre al rito della cremazione, praticato da tutte le genti venetiche, il ritrovamento di numerose figurine animali e la frequenza dei simboli legati al culto del sole e della fertilità, presenti sui contenitori ceramici e sugli oggetti in bronzo, lascerebbero intravvedere una certa identità d’origine attraverso le forti analogie dei simboli magico-religiosi … altre prove di affinità verrebbero offerte dalla presenza di un culto delle acque sananti, praticato secondo schemi troppo paralleli per esser considerati casuali; dalle forti analogie esistenti tra gli abiti rituali baltici e quelli euganei; dalla somiglianza di alcuni strumenti musicali; e non ultimo, dal forte legame con la figura del cavallo, sia sul piano economico che su quello delle credenze religiose.

Anche l’organizzazione sociale sembrerebbe offrire prove tangibili di questa affinità, specie per quanto attiene alla produzione ceramica e a quella metallurgica, affidate a gruppi di artigiani-mercanti. Mancherebbero invece dati sufficienti a documentare una più dettagliata correlazione tra i Veneti euganei e i Veneti baltici per quanto riguarda la tecnica costruttiva degli insediamenti fortificati. A questo proposito si conoscono dettagliatamente solo le costruzioni del Baltico, realizzate per lo più in legno secondo tecniche di netta derivazione mediterranea, distribuite su un’area compresa tra l’Oder e la Vistola. Per il momento non si hanno notizie di analoghi ritrovamenti nell’Italia settentrionale; ma Witold Hensel, convinto assertore di questa teoria, è certo che si tratti solo di tempo» (9).

(9) Rossi-Osmida, Polonia, p. 20. L’intervento svolto dai massimi vertici dell’archeologia polacca poggia su prove solide. Rossi-Osmida, il curatore italiano della rivista citata, s’ingegna in tutti i modi per ridimensionare la portata della ricostruzione storica svolta dai Polacchi, e così commenta: «Si sa che, attorno al I secolo a.C., i Germani indicavano i loro confinanti dell’est con il nome di Wenedi … segno evidente che non si erano ancora accorti dell’avvenuta slavizzazione dei vicini … l’equivoco, così sorto, portò all’identificazione dei Wenedi (e quindi dei Veneti) con gli Slavi: errore in cui incorsero quasi tutti gli scrittori dell’antichità: da Plinio a Tacito, a Tolomeo, a Jordanes». Queste dichiarazioni lasciano perplessi: tutti gli autori classici citati si sarebbero sbagliati, così pure gli antichi Germani non si sarebbero accorti che ai Veneti si sarebbero sovrapposti gli Slavi, infine centinaia di scienziati dei Paesi dell’Est sarebbero caduti vittime di vecchi equivoci, ai quali invece si sarebbe sottratta la scuola archeologica italiana.

Così si pronunciava il direttore dell’Istituto di Storia della Cultura Materiale (Accademia Polacca delle Scienze).

VENETI O VENETICI? Come è nato il termine “Venetici”

Di Gianna Marcato, docente al dipartimento linguistica, università di Padova.
un lavoro dell'autore che riproduce  una piastra veneta di un corredo funebre
un lavoro dell’autore che riproduce una piastra veneta di un corredo funebre

In realtà si devono chiamare Veneti anche i nostri progenitori più antichi, dato che erano conosciuti allora come Veneti. Come è nato il termine “Venetici”? deriva dal greco, che traduceva il nome Veneti in Venetikos, poi translitterato nel latino medioevale (ed esempio quello di Paolo Diacono) in Venetici, ad indicare i veneti della gronda lagunare. La Venetia essendo scomparsa inglobata nel regno dei Longobardi frazionato in ducati.

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L’IDEA DI UN’ITALIA LIBERA DA ROMA…NATA 2000 ANNI ORSONO

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fonti web

In una moneta della Lega Italica un toro incorna la Lupa romana. (Noi eravamo loro alleati, è vero, ma ci servivano per tenere a bada i vicini Celti. ndr)

Gli Italici insorti crearono una vera e propria struttura politica sul modello di quella dell’Urbe. Elessero due consoli, uno dei Marsi e uno dei Sanniti, e un’assemblea forte di 500 senatori. Ma soprattutto coniarono monete che riproducevano la cerimonia del giuramento di fedeltà degli Italici contro Roma, con il dono delle fedi e il sacrificio di scrofe (nella foto, non so se era ironia sottile, quella delle scrofe ). Sul lato opposto compariva per prima volta la scritta ITALIA
Italia “oi (v)italioi” “paese dei vitelli” chiamato dai greci giunti in meridione. Continua a leggere

La Cultura veneziana

Non ci rendiamo conto, ancora, che Venezia fin dal XIV secolo contava con il maggior indice d’istruzione a livello europeo.

Una città dove la fonte d’ingresso era fondamentalmente il commercio, doveva alla forza avere un’ alfabetizzazione molto elevata e impartita in tutti i ceti sociali.

Venezia città complessa, articolata alla cui organizzazione e prosperità concorrevano i più diversi mestieri, professioni e attività, la scrittura e la contabilità sono totalmente indispensabili.

Nel 1345 il colto Doge Andrea Dandolo già aveva burocratizzato lo Stato veneto quando il resto d’Europa incomincia a partire del XV secolo (sicuramente imitando Venezia).

Il Liber Albus e il Liber Blancus sono diplomatari contenenti gli atti relativi ai rapporti tra la Serenissima e gli Stati d’Oriente e d’Occidente.

Anteriormente abbiamo i Pacta ovvero gli atti di Diritto Internazionale.

I Commemoriali dove si trascrivono gli atti di maggior rilievo della città.

Qui ci rendiamo conto che Venezia attraverso la registrazione e la documentazione aveva bisogno di un costante rapporto fra cittadini e Stato rendendo sempre più necessario l’uso dello scritto.

I patrizi potevano accedere a prontuari di rapida consulta per partecipare efficacemente alla vita politica ed alle votazioni.

Tutto questo solo si poteva ottenere con un numero adeguato di scuole: i numerosi insegnanti venivano assunti dai privati (al contrario della terraferma che venivano assunti attraverso d’istituzioni pubbliche).

Oggi in pieno XXI secolo facciamo esattamente il contrario, bombardati dai mass-media che annichilano il nostro intelletto e perdiamo ogni classe d’informazione utile al benessere di uno Stato.

IL SENSO DEL DOVERE

Tra i più grandi ambasciatori che ha avuto la Repubblica di Venezia, in un momento storico molto delicato, troviamo Giovanni Correr (1533/83): figlio di Angelo Correr quest’ultimo godeva di una eccellente reputazione nell’ambito dell’Amministrazione veneziana e ostentava anche il carico di capitano a Verona e a Treviso, la madre era padovana, Paola Vallaresso.

Possiamo affermare che la vita di Giovanni era al servizio completo della Serenissima: durante i vent’anni della sua attività diplomatica non ha avuto un momento di riposo.

Tutte le ambasciate di quel tempo erano importanti però a Giovanni Correr lo mandarono negli Stati più conflittivi, dove era necessario mantenere la pace a tutti i costi, l’equilibrio necessario per poter fare alleanze fondamentali nel momento in cui i turchi invadevano Europa e pochi sovrani erano disposti a vedere il pericolo, occupati in guerre religiose e aumentare i territori dei Regni a discapito di altri.

Giovanni è mandato al Ducato di Savoja (1563), cercando la neutralità come unica soluzione dopo della guerra che aveva sofferto il Duca; successivamente lo mandano in Francia con lo stesso progetto, Venezia non poteva sopportare altre guerre.

Nel 1569 è membro del Senato nello stesso anno lo mandano in Germania dove il Correr si rende conto che Massimiliano ha seri problemi provocato dallo Scisma della Chiesa.

Nel 1575 fu eletto Bailo di Costantinopoli, viaggia insieme a Jacopo Soranzo ambasciatore straordinario presso la Corte di Murad III. Il suo incarico è fino il 1577 il suo sucessore fu Nicolò Barbarigo.

Nel 1578 fu eletto savio del Consiglio X e nello stesso anno lo mandano a Roma e nel 1581 fu eletto, assieme a Giovanni Michiel, Giacomo Soranzo e Paolo Tiepolo ambasciatore dell’Arciduchessa Maria d’Asburgo. Lei ed il figlio viaggiano attraversando lo Stato venetoper andare in Spagna.

Nel 1582 ha l’ordine di riformare l’Ateneo padovano; Giovanni Correr era profondamente cattolico però sapeva l’importanza di permettere che professori e studenti stranieri potessero accedere all’Università godendo di certa libertà.

Viene rieletto savio del Consiglio X però si sentiva “infermo in corpo” fa testamento 18 giorni prima di morire con solo 50 anni.

Una sola persona era responsabile del destino di uno Stato…magari ritornassero uomini così disposti a tutto per salvare la Nazione.

UN AMBASCIATORE UMANISTA

Fra i grandi ambasciatori veneziani che sono vissuti nella Corte spagnola, incontriamo un poeta umanista: Giambattista Amalteo (1525/73): una opera postuma impressa a Venezia nel 1627 “TRIUM FATRUM AMALTHEORUM…CARMINA” nell’Imprenta di Andrea Muschio ci da un riepilogo del grandioso e abbondante

lavoro dei fratelli Amalteo, dove distacca particolarmente Giambattista riconosciuto come uno dei più importanti ed interessanti poeti neolatini del suo tempo.

Fu ammirato da Ludovico Dolce e dall’Arretino; considerato un poeta precoce, esigente con sé stesso e riconosciuto nell’ambito letterale dell’epoca. Tasso lo elogia nel dialogo Della Dignità.

Giambattista scrive in lingua greca sulla Battaglia di Lepanto dove parla ampiamente della vittoria sopra il turco.

Nelle ultime opere si è recentemente scoperto che c’è una forte relazione letteraria con l’umanista sivigliano Juan de Mal Lara (1526/71); infatti in “AD IOANNEM MALLARUM HISPANUMè una epistola di Amalteo, si può definire come un Testamento spirituale (Confessio), una progressiva evoluzione intellettuale della sua opera attraverso il tema dell’amicizia con il sivigliano.

Nel 1569 de Mal Lara è un poeta abbastanza famoso e fa parte del circolo intellettuale del monarca Filippo II; quest’ultimo gli affida il programmma iconografico della Galleria Reale di D. Juan de Austria.

L’umanista veneziano lamenta anche la distanza perchè gli avrebbe fatto piacere conoscere personalmente al sevigliano. Juan de Mal Lara conosce l’opera giovanile di Giambattista Amalteo.

Tutto questo ci dimostra che esiste una stretta relazione tra l’Umanismo veneziano e quello spagnolo, rafforzato ai tempi della Battaglia di Lepanto, solamente i testi di Storia cercano di dare una supremazia alla Spagna o allo Stato Pontificio, ma nella realtà esiste un mutuo rispetto e una grande ammirazione tra le Nazioni che hanno partecipato in quella grande Battaglia.

1667 – A CANDIA LE COSE PEGGIORANO SEMPRE PIU’. ANCORA LE DONNE IN AZIONE

Dal testo di Francesco Zanotto Veja.it

 

Come già in molte altre disperate circostanze, anche le donne di Candia aiutano gli uomini a difendere le mura ormai gravemente danneggiate.

Come già in molte altre disperate circostanze, anche le donne di Candia aiutano gli uomini a difendere le mura ormai gravemente danneggiate.

” ….la moglie del maggiore Battaglia Motta, la quale, fattasi capo delle femmine tutte, con animo virile, generosamente impiegossi con esemplare intrepidezza ad animare le altre tutte nei lavori di munimento, recando materiali, e ciò tutto occorreva per alleviar la fatica de’ padri, degli sposi e dei fratelli, esponendosi quanto essi ai pericoli del fiero Marte, fino a che periva essa unitamente a molte compagne, su quelle stesse mura che cercavano di rendere inespugnabili. La quale virtù di questa donna fortissima, volemmo, col ministero dell’arte, tramandare più spiccatamente alla memoria de’ posteri, affinché si conosca … ”

Innumerevoli furono dunque le occasioni nelle quali il Leone di S. Marco si scontrò vittorioso con la Mezzaluna.

Molti furono i comandanti veneziani che con le loro navi regalarono il più delle volte delle inaspettate ed in sperate vittorie alla loro patria. Veneziani, appunto, ed esclusivamente, dal momento che ancora nel 1660 nessuno degli stati cristiani era sceso a fianco della Serenissima nelle acque pericolose del Mediterraneo Orientale.

La mancanza di un’azione unitaria da parte della cristianità riduceva l’impegno e lo sforzo dei veneziani a delle sporadiche e circoscritte battaglie con il Turco che, sebbene quasi sempre vittoriose, non andavano però a modificare una situazione, sostanzialmente immutata da vent’anni.

Qualcosa, bisogna ammetterlo, fece difetto anche nel comando generale veneziano che non riuscì mai ad organizzare un’azione di grande portata su vasta scala, in grado di bloccare i rifornimenti alla flotta e all’esercito turchi che assediavano Candia.

I difensori dell’isola se poterono reggere un assedio di così eccezionale durata, era per il fatto che in tutti quegli anni i rifornimenti e i rinforzi dalla madrepatria continuarono ad arrivare più o meno regolarmente. E’ anche vero d’altro canto che Venezia non poteva riuscire in questa impresa contando solo su sè stessa. Fu già tanto quello che riuscì a fare.

Intanto, quando ormai di Candia e del suo incredibile assedio si parlava in tutte le corti europee, presero a muoversi anche altri stati come la Francia, che con il Sultano turco aveva da almeno due secoli sempre intrecciato amichevoli rapporti commerciali e diplomatici. Motivo per cui si era sempre ben guardata dallo scendere in campo in modi troppo plateali e massicci.

La Francia del re Sole, finalmente, nel 1660 si mosse inviando a Candia 4000 uomini al comando di Almerigo d’Este principe di Modena. C’era solo un particolare e non di poco conto. Il contingente arrivò nell’isola in pieno agosto, anzichè in primavera quando la temperatura e il clima generale dei mesi estivi avrebbero offerto condizioni migliori per l’azione militare.

Non solo. Nessuno si prese poi la briga, prima di iniziare lo scontro con il nemico, di fare almeno una piccola ricognizione del luogo. Tutto questo trasformò il primo impatto coi turchi in un clamoroso ed inevitabile disastro. Come se non bastasse ci si mise anche la dissenteria che si diffuse presto fra i superstiti vanificando ogni ulteriore iniziativa.

Non molto diversamente andarono le cose anche per un contingente di 2000 uomini inviato poco dopo dall’imperatore tedesco. Se questi erano gli aiuti sui quali Venezia, e con essa Candia, poteva contare non c’era da stare molto allegri. Eppure Candia continuava a resistere, a non cedere.

Ma perchè e come succedeva questo? Le ragioni erano diverse. Un pò per il fatto che il Turco, per primo, non sembrava avere molta fretta di completare la conquista di un’isola non più strategicamente così importante. Nel Mediterraneo si erano aperte molte altre rotte commerciali, non controllate dai veneziani e perfettamente agibili. Questo rendeva l’assedio un affare che si poteva rimandare nel tempo.

Il secondo motivo della tenacia dei difensori va ricercato nelle continue azioni navali dei veneziani; terzo motivo oltre al temperamento degli abitanti anche la tenuta delle straordinarie difese della città.

Questa era in realtà una gigantesca fortezza. Vicina al mare, Candia ne era circondata per circa un terzo dalle sue acque, mentre il lato verso terra era stato munito di ben sette grandi e possenti bastioni fortificati ciascuno con un suo nome: Sabionera, Vitturi, Gesù, Martinengo, Betlemme, Panigrà e di S. Andrea.

I bastioni di forma irregolare davano alla pianta della città la caratteristica e ben nota forma stellata. Sull’estremità poi di ciascuno di questi bastioni, erano state costruite delle ulteriori fortificazioni’ come su quello chiamato Vitturi dove si trovava il forte di S. Dimitri, eretto all’inizio della guerra con i turchi da Camillo Gonzaga. Questo forte molto esteso, arrivava con le sue propaggini fino all’altro bastione detto il Sabionera. Verso il mare invece c’era il castello del Molo, all’imboccatura del porto, costruito praticamente sul mare e per questa sua posizione pressoché imprendibile.

Ogni fortificazione, ogni piccolo fortilizio, erano poi naturalmente presidiati da molti soldati che rispondevano ad un capitano.

Proprio questi uomini dovettero fronteggiare all’alba del 22 maggio del 1667 un eccezionale esercito turco che circondò l’intero perimetro della città ponendo un corpo di soldati alla base di ogni bastione.

Una volta accampati i turchi puntarono i loro cannoni su tre delle sette strutture fortificate, in particolare sul bastione di S. Andrea. Alla fine dei preparativi l’esercito nemico era riuscito a piazzare in direzione delle mura di Candia 55 grossi cannoni e 11 mortai pesanti.

In realtà la pressione era concentrata solo su due delle fortificazioni, quella di Panigrà e di Betlemme. Mai prima di allora i turchi erano riusciti a dispiegare tanta potenza offensiva contro la città.

Troppi anni erano del resto trascorsi da quando i primi giannizzeri erano sbarcati nell’isola e avevano posto l’assedio alla sua capitale. Si erano succeduti nel frattempo sultani, Gran Visir e comandanti e anche per loro era giunto il momento di concludere.

Gli abitanti questa volta ben compresero che nel campo nemico erano state prese decisioni strategiche inequivocabili. Ci si rendeva conto che il giorno decisivo non era più ormai tanto lontano.

Non lo si poteva attendere tuttavia senza fare nulla e così iniziarono febbrili i preparativi per resistere il più a lungo possibile ad un assedio che si presentava come quello definitivo. Si iniziò a fortificare ancor di più le mura, in uno sforzo collettivo che non escludeva nessuno, neppure le donne.

A dare loro l’esempio la moglie del maggiore Battaglia Motta, presto emulata da altre donne di Candia che presero ad aiutare gli uomini nel trasporto di materiali.

Era il 1667. Per Candia e la sua gente iniziava il conto alla rovescia.

 

Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA, volume 4, SCRIPTA EDIZIONI

   

San Marco, pochi veneti.

IMG_20181007_101022Domenica 7 ottobre nella Basilica di San Marco si è celebrata la Messa solenne domenicale delle 10,30, accompagnata come di consueto dai canti della Cappella Marciana. Nella prima domenica di ottobre si celebra la memoria della Dedicazione della Basilica all’evangelista Marco, una delle solennità in cui è prevista l’esposizione della Pala d’Oro sull’altar maggiore.paladoro Nel 2018 la data coincideva con l’anniversario della Vittoria di Lepanto, che il celebrante, seppure marginalmente, ha giustamente ricordato. (Nella foto l’Allegoria della Battaglia di Lepanto, di Paolo Veronese, attualmente alle Gallerie dell’Accademia a Venezia.IMG_20181007_135105In Basilica erano presenti numerosissimi stranieri, europei, orientali, sudamericani, in particolare un consistente gruppo di polacchi, in pellegrinaggio guidati dal loro arcivescovo. Mentre entravano e  prendevano posto vedevo i loro occhi brillare, pieni dello stupore, dell’emozione di trovarsi immersi in tanta bellezza, dello splendore degli ori dei mosaici. IMG_20181007_114557E la meraviglia dei canti, la Cappella Marciana ha eseguito una Messa composta a fine XVI° secolo per le celebrazioni per la battaglia di Lepanto, che veniva festeggiata con grande solennità. La magnificenza delle musiche unita alla maestria ineguagliabile dei coristi, i bagliori dei mosaici e delle cupole, creava un’atmosfera difficilmente descrivibile a parole. Il giornalista Socci la definì una scintilla di Paradiso. socciPurtroppo non ho avuto modo di notare una significativa presenza di veneti, anzi credo assai pochi. Tutti amano Venezia, o dicono di amarla, a parole, forse che l’amore sia limitato alla foto sul ponte di Rialto, al caffè Florian, al carnevale.ai voli di colombi. Pochi conoscono e apprezzano l’eredità inestimabile e irripetibile che i nostri avi ci hanno lasciato in bellezza, arte, storia, tradizioni, mentre  perpetuare questi valori dovrebbe rappresentare le nostre fondamenta, qualcosa di unico e prezioso. IMG_20181007_115353Gravissimi danni ha arrecato la scuola, che ha sottaciuto, ignorato volutamente e pedissequamente tutto ciò che riguarda l’esistenza della Serenissima, ma questo dovrebbe essere per i veneti uno sprone, uno stimolo a scoprire ancor più e valorizzare la propria storia e la propria cultura, patrimoni immensi e tuttora semisconosciuti.

Venezia, 7 ottobre 2018

 

 

 

Domenica 7 ottobre si ricorda la Vittoria di Lepanto, 7 ottobre 1571, celebrata solennemente dalla Repubblica Serenissima fino alla caduta nel 1797. Quest’anno la ricorrenza coincide con la celebrazione della memoria della Dedicazione della Basilica al Patrono San Marco, avvenuta l’8 ottobre del 1094. Una delle occasioni in cui viene esposta la Pala d’Oro.Durante la S. Messa in Basilica alle 10,30 la Cappella Marciana eseguirà musiche di Giovanni Croce, chioggiotto, sacerdote, compositore, Vicemaestro  e poi Maestro di Cappella della Basilica di San Marco dal 1590 fino al 1609. La Cappella eseguirà, in cori battenti e spezzati disposti sulle cantorie, diversi brani di Croce, in particolare saranno eseguite parti della Messa a 8 voci ” Sopra la Battaglia”. Un piccolo richiamo alle solenni celebrazioni della Serenissima e le musiche che hanno reso celebre nel mondo la Scuola veneziana.

Le putte di Vivaldi.

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La Ca’ d’oro, luogo del cuore.

2504201612784Il mercante Marino Contarini aveva voluto che per il suo palazzo in riva al Canal Grande fossero utilizzati i marmi più preziosi e i materiali più pregiati. Egli stesso aveva voluto coordinare i lavori, collaborando con passione con i vari architetti succedutisi, e tenendo minuziosamente  il conto dei lavori e delle notevoli spese. Continua a leggere